Era un predestinato del mic: il suo primo singolo (“Too much gun”) aggredì la reggae-dancehall audience alla stregua di una mitragliata in pieno petto: parole-proiettili serrate che stordivano come una manica di schiaffi in viso. Era tutto chiaro sin da quel singolo: non si trattava di una meteora o di un artista costruito a tavolino da qualche producer, ma bensì di un deejay (in Jamaica chi canta in stile raggamuffin viene chiamato così) dotato di un flow che non si sentiva da tempo (direi dai tempi del primo Beenie Man). Fu così che, dopo il successo di “Step out”, una vera e propria club hit, arrivò il contratto con la Greensleeves records e il seguente primo disco omonimo, una sorta di presentazione al grande pubblico del repertorio vocale del nostro. Il disco ottenne buone recensioni e contribuì a caricare di grandi aspettative la futura carriera della stella nascente. Il vero successo arrivò nel 2008 con il successivo “Loaded”. Questa volta i singoli azzeccati furono almeno 5 (“Jail”, “Pon di edge”, “Unknown number”, “These are the days” e “Tic toc”), tutti a cavallo tra la dancehall moderna e l’hip hop (una sorta di r’n’b che strizzava entrambi gli occhi alle produzioni USA), con grande successo di critica e pubblico e un’ampissima risonanza internazionale. A questo punto la strada verso il successo planetario sembrava spianata.
Ma qualcosa si è inceppato. Infatti il periodo successivo ha visto Busy calare nella qualità delle produzioni, fino al successivo “D.O.B.”, un disco interlocutorio senza singoli di rilievo e poco ispirato. Questo è accaduto per via del fatto che la Jamaica, dal 2008 al 2011, ha vissuto uno dei periodi peggiori in assoluto della sua storia artistico-musicale. Le produzioni provenienti dall’isola sono per lo più di basso livello, a tratti inascoltabili e per nulla ballabili e l’isola sta ora cercando di ritrovare un suono distintivo, dopo essersi perduta alla ricerca di qualcosa che suonasse più simile ai grandi successi del mercato statunitense, governato dall’hip hop e dall’r’n’b, che alla propria storia e alle proprie radici.
In una parola: crisi. Crisi d’identità, oltre che di valori e costumi. Tutto questo è in parte imputabile alla gangsta culture e alla “slackness” (sboccataggine) pluripotenziata degli artisti che hanno settato il trend in quella fase: Vybz Kartel e Mavado su tutti. Tra i due ha preso il via una sorta di competizione a chi riuscisse ad essere più “bad”, più scurrile e materialista, con continui riferimenti a soldi, sesso, armi da fuoco, in una vera e propria gara a “chi ce l’ha più grosso”. L’isola ha seguito i suoi riferimenti fino a che non si è resa conto della loro pochezza artistico-morale, con Kartel sbiancato (alla Jacko) ora processato per omicidi e chissà quali altri reati e Mavado stonato che sembra aver colto la necessità di cambiamento e sta forse cercando di darsi una calmata.
E’ in quest’ottica di rinnovamento necessario e ricerca di valori reali che si inserisce l’ultimo album di studio di Busy, un nuovo manifesto di purezza, un ritorno alla tradizione che ha del portentoso. “Reggae music again” vuole infatti essere il disco della rinascita del reggae, del ritorno alle sonorità e ai messaggi che hanno reso la Jamaica la terra dell’orgoglio rasta, della denuncia sociale e dell’amore universale in nome di un cambiamento globale che garantisca a tutti una vita tranquilla e dignitosa.
Produzioni di classe rigorosamente in levare e flow micidiale del nostro garantiscono un’elevata levatura artistica, e i testi impegnati e profondi hanno uno spessore che da tempo non si sentiva. Questo nuovo Busy Signal piace molto e le prime indiscrezioni parlano di una nuova ondata di reggae roots delle radici che coinvolgerebbe altri “big” della dancehall jamaicana. Sembra insomma che stia nascendo un nuovo trend che convogli la musica jamaicana verso sonorità più tradizionali.
Ma è proprio quando tutto sembra cominciare a crescere che accade l’inaspettato: al ritorno in Jamaica dopo un tour, Busy viene arrestato per una condanna emessa in America per possesso di cocaina nel 2002. Dieci anni separano l’artista da quella che sembra essere una bravata di gioventù, ma la giustizia americana ha i suoi tempi e i suoi modi e pretenderebbe ora l’estradizione dell’artista, con il successivo processo e la probabile condanna e detenzione. Staremo a vedere quello che accadrà, ma per il momento la speranza di una nuova linfa vitale per il reggae jamaicano torna ad affievolirsi.
Dimitri “Prepio” Sonzogni
da Junks Magazine (luglio/agosto 2012):
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